domenica 10 aprile 2016

Marcello Simoni: il mestiere di Scrivere, tra ispirazione ed esercizio


In attesa che, all’inizio dell’estate, esca il suo prossimo romanzo, “L’abbazia dei cento inganni”, Newton Compton, capitolo conclusivo della trilogia medievale dedicata a Maynard de Rocheblanche, lo scrittore Marcello Simoni ci ha illustrato cosa significa, al giorno d’oggi, scegliere di intraprendere il mestiere di autore a tempo pieno.
In seguito a un percorso come archeologo e bibliotecario, infatti, Marcello Simoni ha esordito nel mondo della narrativa con “Il mercante di libri maledetti”, Newton Compton, vincitore del Premio Bancarella, riscuotendo un grandissimo successo di pubblico e di critica. Dopo oltre un milione di libri venduti in tutto il mondo e diritti di traduzione ceduti in diciotto Paesi, abbiamo chiesto a Marcello Simoni di trarre un bilancio della scelta che qualche anno fa gli ha cambiato la vita. Inserendosi nel solco aperto da Umberto Eco con “Il nome della rosa”, Simoni, infatti, ha saputo trasformare, adattandolo al suo stile brillante e diretto, un genere molto amato da milioni di lettori, creando storie che coniugano sapientemente gli ingarbugliati misteri del giallo, le esaltanti emozioni dell’avventura e le caratteristiche atmosfere dello storico. Ma qual è il suo segreto?
Per fare in modo che la scrittura diventi una professione, oltre all’esplorazione del proprio talento, è necessaria l’applicazione di un metodo che disciplini l’ispirazione iniziale, incanalando le energie che mettono in connessione l’autore con la propria storia. Il tempo da dedicare alla scrittura, quindi, non è più uno solo uno spazio ritagliato da una pressante quotidianità, ma risponde all’esigenza profonda di concretizzare un’attitudine, trasformandola in un’attività a tutto tondo.
Come un atleta per aspirare alle Olimpiadi ha bisogno di allenarsi costantemente, così, secondo Marcello Simoni, lo scrittore necessita di alcune ore di esercizio quotidiano dedicato al confronto diretto con la propria opera, per asciugarne lo stile, calibrarne la struttura e adattarne i personaggi, con l’obiettivo di renderla il miglior specchio del proprio talento. Perché, in fondo, l’ispirazione è solo la fase iniziale di un lungo processo di cesellamento di un’idea grezza. Dopo l’epifania di un momento, c’è la vera costruzione della storia: un lavoro intimo, instancabile, imprescindibile, che conduce a quella parola fine che, in realtà, è solo l’inizio.


Atmosfere medievali, personaggi misteriosi e delitti apparentemente inspiegabili: questi sono solo alcuni degli elementi che rendono tanto avvincenti i tuoi libri. Tu che scrittore sei? Cosa ti ha spinto a dedicarti al romanzo storico, fondendolo così efficacemente con il mistery?

Fin dalla stesura del mio primo romanzo, “Il mercante di libri maledetti”, mi resi conto che il problema principale di chi scrive narrativa è comprendere in quale genere inserirsi. Di primo acchito sembrerebbe una banalità, ma già in fase di pre-scrittura, cioè durante l’elaborazione della sinossi, mi accorsi di quanto fosse decisiva e difficile questa scelta. Il tenore della trama, il ritmo, lo stile, la prospettiva e persino il profilo psicologico dei personaggi dipendono da essa. Io però non volevo rinunciare a nulla, o quasi. Maneggiare nozioni di storia medievale, inserirli in modo funzionale e non noioso all’interno di un plot, significava, infatti, fare buon uso dei moduli dell’avventura, del thriller e del giallo. Il primo dà movimento, il secondo ritmo, il terzo mistero. Perciò mi sono servito di questi ingredienti ibridandoli in un mix molto particolare, che si adattasse al mio stile di scrittura. Tuttora resto fedele alla regola, cercando, romanzo dopo romanzo, di migliorarla, smussando gli angoli, bilanciando i pesi. Come un artigiano.

Chi sono Ignazio da Toledo e Maynard de Rocheblanche, due tra i protagonisti più amati dai tuoi lettori? Come li definiresti e, in generale, come delinei i personaggi delle tue storie?

Ignazio e Maynard sono semplicemente eroi della narrativa popolare, ovvero ciò che Umberto Eco definiva “superuomini di massa”. Come Batman e il Corsaro Nero, il Conte di Montecristo e D’Artagnan. In definitiva, mi impegno a mettere in risalto non tanto le loro buone qualità, che pur esistono, quanto i loro conflitti interiori, la loro curiosità, i loro rimorsi. In poche parole: il genio dell’intrigo.

Sei riuscito a fare del tuo più grande talento una professione a tempo pieno: che ostacoli hai incontrato e incontri ancora adesso nel tuo percorso da scrittore? Cosa significa, al giorno d’oggi, collaborare stabilmente con un grande editore?

Scrivere narrativa, professionalmente parlando, significa operare ogni giorno delle scelte. A volte di concerto con l’editore; più spesso da soli, nel silenzio del proprio studio. Detto questo, l’elaborazione dei romanzi dipende solo ed esclusivamente dal sottoscritto, che non chiede suggerimenti ad anima viva, né permette a nessuno di metter becco su ciò che sta combinando, finché non ha battuto sulla tastiera la parola Fine. Poi ci sono l’editing, le bozze, la scelta di titolo e copertina, il marketing... In una parola, il gioco di squadra. Ma veniamo al dunque: il mestiere di scrivere. Ebbene, è senz’altro esaltante lavorare in proprio, non avere capi né orari di ufficio. L’effetto della libertà assoluta però può essere fuorviante, specie per chi aspetta l’ispirazione prima di iniziare a stendere un nuovo romanzo. In realtà l’ispirazione non esiste, non come te la raccontano nei film. Si tratta piuttosto di una conquista quotidiana, un esercizio attraverso cui disciplinare la mente e la creatività. Io scrivo cinque-sei ore al giorno, tutti i giorni. Se posso anche le domeniche, magari in quelle arrivo alle due-tre ore. È quasi una necessità: ho sempre amato scrivere e se non lo facessi ne soffrirei. Quindi mi permetto una rettifica: scrivere è un esercizio, sì, ma bisogna anche essere tagliati per farlo. Il talento e la passione non ve li insegneranno mai in nessun corso di scrittura creativa. Non esistono ancora, che io sappia, trasfusioni di fantasia. Si tratta di doni che avete o non avete, sin dalla nascita. Poi bisogna correre, farsi i muscoli. E questo, be’, è tutto esercizio.

Arriva un momento nella vita di ogni opera nel quale questa smette di essere proprietà esclusiva dell’autore che l’ha ideata e diventa parte integrante della sensibilità di chi ne fruisce. Come ti rapporti con questo fenomeno? Che spunti ricevi dai tuoi lettori?

Nel corso degli anni il mio rapporto con i lettori è cresciuto. I Social Network, le presentazioni, le interviste mi hanno consentito di instaurare un legame biunivoco attraverso cui “tastare il polso” della situazione. Ho anche imparato a guardare i miei personaggi attraverso gli occhi di chi mi legge e questa è stata un’esperienza grandiosa. La lezione più importante di tutte, forse. Questo perché le persone “comuni”, quelle che vagano come spettri per gli scaffali delle librerie in cerca dei tuoi thriller, sanno andare dritti al succo. Sanno dirti subito, sin dalla prima pagina, se il romanzo funziona oppure no. Se la tua storia è viva, accattivante, o se invece può essere tranquillamente buttata giù per lo sciacquone.

A cosa stai lavorando attualmente? Svelaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.


Ho da poco consegnato a Newton Compron il manoscritto di “L’abbazia dei cento inganni”, il capitolo conclusivo della trilogia medievale dedicata a Maynard de Rocheblanche. Una trilogia, ci tengo a precisarlo, in cui ho messo l’anima. Al momento attuale, naturalmente, sto già lavorando a qualcosa di nuovo. Un progetto esaltante, per la verità, che spero – come diceva Richard Matheson – vi farà saltare sulla sedia. Ma al momento, da bravo scrittore di mistery, non posso rivelare nient’altro.



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