domenica 20 marzo 2016

Alessandro Bastasi: il lato oscuro della Milano da Bere


Massimo Gerosa è un uomo come tanti. Ha una bella moglie, una figlia appena maggiorenne e un lavoro prestigioso che gli garantisce un tenore di vita elevato e soddisfacente. Almeno finché la Comor, la multinazionale informatica per cui lavora, lo licenzia da un giorno all’altro, senza una motivazione specifica. La crisi economica strozza il Paese e le aziende si stanno attrezzando eliminando ciò di cui credono di poter fare a meno: il personale dirigenziale più qualificato. Da quel momento la vita di Massimo Gerosa cambia radicalmente e ogni prospettiva si capovolge, aprendo scenari drammatici. Il matrimonio naufraga in modo irreparabile, tanto che la moglie lo caccia di casa e perfino la figlia, Cristina, che inizialmente tenta di stare accanto al padre, lo abbandona, non sentendosi compresa da un uomo ormai troppo distante da chiunque. Dopo mesi vissuti passando nottate in bianco tra alberghi di quart’ordine e la sua auto, Massimo diventa il guardiano notturno della sede di un movimento politico di estrema destra, del quale, col tempo, sposa l’ideologia nazionalista e estremamente razzista. Nella sua profonda solitudine, Massimo arriva perfino a progettare un delirante attentato contro Roberto Modigliano, prossimo Ministro dell’Economia e esponente di una ricca famiglia ebrea del milanese, che egli considera la causa principale della sua rovina. Ma nella Milano da bere nulla è come sembra e anche Modigliano nasconde un terribile segreto che Massimo porterà inaspettatamente alla luce.
“Era la Milano da bere”, Fratelli Frilli Editori, di Alessandro Bastasi, è un romanzo crudo e diretto, dallo stile tagliente e asciutto, che racconta la vera e propria ‘morte civile’ di un uomo che, perdendo il proprio lavoro a causa della crisi economica che attanaglia l’Italia, vede svanire tutto quello che ha costruito. Ciò che colpisce, oltre all’attualità della storia magistralmente raccontata dall’autore, è il profondo senso di solitudine che circonda tutti i personaggi del romanzo, in particolar modo il protagonista, proprio come la fitta nebbia che ricopre perfino il lusso della cosiddetta Milano da bere. Anche il rapporto tra Massimo e Cristina, padre e figlia, è logorato dalla mancanza di attenzione e di conoscenza reciproca, come se entrambi si trovassero su una giostra impazzita, dalla quale non possono più scendere. Un noir che, alle tinte del thriller metropolitano, unisce l’introspezione del giallo psicologico, fino a un epilogo amaro e sorprendente.


“Era la Milano da bere”, Fratelli Frilli Editori, è uno spaccato duro e coraggioso della nostra società, che racconta l’annientamento di un uomo come tanti a causa della crisi, non solo economica, che ci attanaglia. Raccontaci la genesi di questo romanzo: cosa ti ha ispirato durante la stesura?

Ho concepito il romanzo nel pieno della crisi iniziata nel 2008, quando le cronache raccontavano di lavoratori sopra i tetti, cassa integrazione e licenziamenti a più non posso, manager finiti a dimorare in macchina e in coda alle mense di carità per un piatto di minestra. Poi, agli inizi del 2013, leggo di intercettazioni nei confronti di esponenti di Casa Pound a Napoli, della violenza e dell’antisemitismo che li caratterizzano e ho messo insieme le due cose: certi effetti apparentemente inconcepibili, quali l'adesione acritica a un movimento di estrema destra, trovano una genesi ben comprensibile e prevedibile nella crisi economica, morale, sociale e culturale del Paese.

Da dove nasce il tuo bisogno di scrivere? Che autore sei: segui l’ispirazione in ogni momento della giornata o hai un metodo collaudato al quale non sai rinunciare?

Sul bisogno di scrivere cito una frase di Emil Cioran che mi ha sempre colpito e che sento profondamente mia: "Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione." Non ho un vero e proprio metodo collaudato. Lo spunto per un romanzo mi può nascere in qualsiasi momento, da un articolo di giornale, da una chiacchierata con un amico, dall’immagine di un viso triste di un uomo o di una donna incrociati per strada. Da quel momento qualcosa mi ronza in testa e comincio ad abbozzare una storia, a costruire dei personaggi, a buttar giù una traccia. Poi comincio e, procedendo con la scrittura, i personaggi acquistano corpo, prendono le loro strade, tanto che spesso devo tornare indietro e riscrivere interi pezzi coerenti con nuove caratteristiche e nuove vicende, in un procedimento che a volte è semplice, altre volte lungo e complesso. Soprattutto quando personaggi che non avevo previsto si intrufolano nella storia.

Chi è Massimo Gerosa, il protagonista del tuo romanzo? Come lo definiresti e che rapporti ha con le persone che lo circondano, in particolare con la figlia, Cristina? Come delinei, in generale, i personaggi delle tue storie?

Chi è Massimo Gerosa? È il frutto degli anni Ottanta, per cominciare, gli anni nei quali si è imposta l’egemonia dell’ideologia individualista, contrapposta a quella collettivista del decennio precedente. Gli anni nei quali l’obiettivo di una vita era diventato vincere, raggiungere il successo a qualunque costo, anni nei quali sempre di più l’idolo da venerare diventava il denaro, a scapito della cultura, della solidarietà, dell’etica civile. Era la Milano da bere, appunto. Massimo Gerosa, di umile origine, ha sposato in pieno il mito arrivista del neoliberismo ed è questo che cerca di inculcare nella mente della figlia Cristina. La quale di fronte ai “valori” della sua famiglia ha un atteggiamento comprensibilmente ondivago, in certi momenti ne è attratta, in altri le procurano un forte disagio, che né il padre né la madre riescono a comprendere. Non c’è dialogo, tra di loro. Nemmeno dopo che il padre è stato licenziato e cacciato di casa dalla moglie.  “Perché non è mai venuto a parlarmi?”, dice Cristina a un certo punto del romanzo, “A raccontarmi quello che era successo, quello che pensava? Darmi calore, vicinanza, fiducia. Nulla, no, non esistevo proprio”. E poi: “Soltanto dopo, dopo che se n’è andato, quando si sentiva triste e solo nell’albergo da quattro soldi dov’era finito, qualche volta mi chiamava al telefono e mi invitava a cena, e io accettavo, perché speravo che finalmente mi avrebbe aperto il cuore, e invece niente, anche allora soltanto un ‘come stai’, ‘che gente frequenti’ e ‘cosa pensi di fare da grande’, come se fossi ancora una bambina”. Cristina è la “bambina” che lui avrebbe voluto plasmare a sua immagine e somiglianza, e per questo non badava a spese, la migliore scuola, gli ambienti più esclusivi, la prospettiva di una laurea alla Bocconi. Fino alla caduta e alla discesa all’inferno, dal quale crede di risalire aderendo acriticamente a un gruppo di destra eversiva.
Per quanto riguarda i rapporti di Massimo con gli altri personaggi quello che nel romanzo ho cercato di far emergere è soprattutto la solitudine nella quale vivono i protagonisti. Che ho voluto inserire nella struttura stessa del romanzo, dove le vicende dei personaggi sono percorsi narrativi per lo più paralleli, che qualche volta si incrociano, sì, ma solo apparentemente, solo per sfiorarsi, senza entrare mai in un rapporto profondo, esistenziale. Ognuno per sé, in una lotta di tutti contro tutti.
Circa il mio modo di delineare i personaggi, prima di tutto li abbozzo, poi loro prendono forma, consistenza, carattere durante la stesura, quasi autonomamente. Non riesco a farmi una tabellina in cui incasellare fin dall’inizio le loro caratteristiche. Sono loro stessi che spesso mi fanno capire chi sono veramente, ad esempio quando mi trovo di fronte a uno snodo e devo decidere quale strada prendere.

I tuoi libri sono impregnati di attualità, pur conservando una struttura simile a una pièce teatrale che li rende originali, nel loro stile diretto e scorrevole. Cosa vuoi comunicare ai tuoi lettori? Il tuo passato di attore teatrale ha influenzato il tuo percorso di scrittore?

Ai miei lettori vorrei raccontare l’attualità mostrando il lato oscuro della società in cui sono immersi, dar loro un punto di vista diverso. Senza però voler consegnare delle soluzioni, non è compito mio in quanto autore. Sotto questo aspetto, credo che ci sia stata un’evoluzione importante dai miei primi romanzi. Cerco sempre di più di limitarmi a raccontare delle storie, in modo il più possibile asciutto e secco, senza fronzoli, senza compiacimenti letterari. Il “messaggio” deve emergere dalla scrittura, da come racconto la storia, dalle azioni dei personaggi, dai dialoghi, senza imposizioni personali del narratore. Ecco, in questo approccio forse conta il mio passato di attore, perché ogni volta cerco di raffigurarmi i personaggi sulla scena, cerco di catturare i loro tic, le loro movenze, il loro modo di parlare, tanto che spesso leggo a voce alta un pezzo per vedere l’effetto che fa.  E l’effetto che farebbe in scena.

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.

Ho terminato in prima stesura un nuovo romanzo, che ha solo bisogno dell’approvazione dell’editore per tornare a lavorarci sopra, in un confronto sia con l’editore sia con alcune persone di cui “mi fido”, i miei lettori-beta, se così li posso chiamare. E poi staremo a vedere, in testa già mi frulla qualche idea… 

www.alessandrobastasi.blogspot.it





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