sabato 31 ottobre 2015

Simona Colaiuda: Storie d’Amore e di Donne come me


Il piacere di leggere racconti risiede nella capacità dell’autore di delineare tante situazioni differenti che seguano un filo conduttore ben preciso, lasciando, tuttavia, al lettore la libertà di spaziare con la fantasia, non soffermandosi solo sulle vicende narrate, proprio come un pittore che dà vita a un’opera d’arte, pennellata dopo pennellata. Questo è esattamente ciò che accade leggendo la raccolta di racconti di Simona Colaiuda dal titolo “Storie d’amore”, edita da Lettere Animate.  Lo stile dell’autrice è semplice, diretto, forse persino ingenuo, in alcuni punti, ma la brevità dei racconti rende queste storie di vita quotidiana delle piccole perle, che lasciano col sorriso e con la certezza che solo con la leggerezza nel cuore e con la spensieratezza dei sentimenti più profondi si può affrontare al meglio qualsiasi situazione, anche la più difficile. Le vere protagoniste sono le donne, forti e fragili al tempo stesso, e sempre pronte a capire che il vero amore sta nella dignità di rispettare i propri equilibri interiori, prima ancora di crearne di nuovi. Ma sentiamo dal racconto della stessa autrice, Simona Colaiuda, come e perchè è nata l’idea di comporre questo mosaico di storie da leggere tutto d’un fiato!


“Storie d’amore”: non potrebbe esserci titolo più idoneo, per la sua semplicità e leggerezza, per definire lo spirito di questa deliziosa raccolta di racconti, edita da Lettere Animate. Raccontaci la genesi di questo libro: cosa ti ha ispirato durante la stesura?

L’idea è nata per caso. Avevo scritto questi racconti per una rivista nazionale con la quale collaboro. Poi, a dicembre dello scorso anno, ho visto che Lettere Animate era in cerca di racconti, così ho raccolto i miei in base al loro ordine di pubblicazione sulla rivista e li ho inviati. Anche il titolo è nato per caso. Poiché, ogni capitolo è la storia di una donna e delle sue emozioni, ho pensato che “Storie d’amore” fosse il titolo più appropriato.

Da dove nasce la tua esigenza di scrivere? Che autrice sei: segui l’ispirazione in ogni momento della giornata o hai un metodo preciso al quale non rinunci mai?

L’esigenza di scrivere nasce da un particolare che mi colpisce, da un’emozione che mi stupisce. Poi le storie vengono da sole, come le parole. Non ho un metodo preciso. Non scrivo tutti i giorni. L’unica regola che rispetto è essere onesta con me stessa e con il lettore. Scrivo cose che anch’io leggerei volentieri. Seguo l’ispirazione, che definirei come un fuoco che mi arde dentro. Non so da dove provenga, so soltanto che devo dargli libero sfogo. Sono le storie che mi vengono a trovare. E io non posso fare altro che raccontarle.

Le protagoniste delle tue storie sono donne nelle quali ciascuna di noi potrebbe riconoscersi: tu a chi ti senti più legata? Come delinei, in generale, i personaggi dei tuoi racconti?

Sono una donna, descrivere l’universo femminile mi viene quasi automatico. Sono legata a tutte le protagoniste di “Storie d’amore”. Dicendo di preferirne una, mi sembrerebbe di fare torto alle altre. Scherzi a parte, mi appassiono a ogni storia, a ogni protagonista che prende vita sulle pagine che scrivo. Ognuna di loro affronta la propria pena e la propria gioia in modo diverso.

Per saper scrivere bene occorre, certamente, leggere tanto: che libro c’è sul tuo comodino? Che generi preferisci?

Amo leggere. Leggo ogni volta che posso. In media un libro alla settimana. Ora sto leggendo: “Essere leader. Guidare gli altri grazie all’intelligenza emotiva” di Daniel Goleman. Preferisco leggere libri di psicologia e narrativa.

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.

In questi giorni mi sto dedicando al mio primo romanzo: “23”, 13Lab Edizioni, dal 25 settembre nelle migliori librerie e store on line. Sono occupata con la sua promozione. A breve, uscirà un altro mio lavoro: non si tratta di narrativa, ma di self-help. Anche a quest’ultimo libro tengo molto, poiché mette insieme due mie passioni: il coaching e la scrittura.

giovedì 29 ottobre 2015

Barbara Benedettelli: l’Omicidio Stradale sarà Reato entro dicembre


È notizia di poche ore fa: la Camera dei Deputati ha approvato con 276 voti a favore, 101 astenuti e 20 contrari, il Disegno di Legge che introduce il reato di Omicidio Stradale, inasprendone le pene per chi lo commette in stato di ubriachezza, sotto effetto di droghe o per chi si dà alla fuga. Il Disegno di Legge torna ora in Senato per il via libera definitivo e potrebbe essere Legge già entro dicembre. Barbara Benedettelli, autrice e saggista di grande successo, attivista per i diritti delle Vittime e Presidente dell’Associazione “Italia Vera”, da sempre in prima linea in questa battaglia, non nasconde la sua soddisfazione, parlando di un vero e proprio cambiamento culturale per il nostro Paese. Ma questo non è l’unico tema di grande rilevanza sociale per il quale Barbara Benedettelli si è fatta portavoce e divulgatrice a favore dell’Opinione Pubblica, dando voce a chi sembrava destinato a non averne. Dalla violenza sulle donne, alla tutela nei confronti delle famiglie delle Vittime di crimini violenti, passando attraverso i soprusi sui minori e la situazione di sovraffollamento delle carceri italiane: la sensibilità con la quale Barbara Benedettelli si occupa di questioni tanto delicate mette sotto gli occhi di tutti la sua determinazione, con un unico monito: solo l’amore, verso gli altri e verso noi stessi, ci può salvare.


Il suo percorso di vita e la sua carriera di autrice hanno i colori vivaci di una splendida avventura: chi è oggi Barbara Benedettelli? Ci racconti la sua storia.

Paragono spesso la vita a un arcobaleno. E i colori dellarcobaleno hanno molte sfumature, vivaci e non. Credo che quello che siamo dipende da come reagiamo quando il colore predominante è scuro. La vita è fatta di luci e ombre, dobbiamo imparare ad approfittare delle luci e a non abbatterci quando è lombra a dominare, affidandoci allenergia vitale che è dentro di noi. Nella mia vita ci sono stati molti momenti terribili, che mi hanno piagato le gambe. Ma amo molto la vita in sé e questo, come affermo anche nel mio ultimo libro Lamore ci salva. Storie di sopravvissuti alla vita, Imprimatur Editore, mi ha salvata. Errori ne ho fatti, anche di valutazione di eventi e persone, ma ogni errore è stato motivo di crescita personale e mi ha messa nelle condizioni di percorrere strade diverse. Non mi fermo mai di fronte a un ostacolo. Mi batto per quello in cui credo fino allultima possibilità e, quando mi accorgo che forse ho sbagliato strada, non penso di avere sbagliato anche vita, ma me ne creo una nuova. Chi sono oggi? Una donna fragile e allo stesso tempo forte, che vive la quotidianità con attenzione verso chi è meno fortunato di me. E che si sente felice quando, attraverso il lavoro, lattivismo, gesti apparentemente banali, riesce a fare ridere chi ha perso tutto, a dare a chi soffre la speranza che una vita ci può essere ancora, anche se non è quella desiderata.

Da dove nasce la sua esigenza di scrivere, in particolar modo di temi così complessi e delicati? Qual è la genesi delle sue opere?

Io scrivo la vita. Le mie esperienze non sono mai solo mie e sento la necessità di condividerle con più persone possibili, perché, da folle quale sono, credo che il mondo si possa cambiare se riteniamo gli altri dei fari che possono guidarci in un viaggio. Quando leggi un libro ciò che leggi diventa pensiero, resta dentro di te e può stimolarti ad andare oltre o ad affrontare nuovi mondi, nuove esperienze mai considerate prima. Un libro entra nella testa di chi legge e diventa parte del suo pensiero quando è scritto con passione. E può essere la fonte di un nuovo inizio o quella nota che ti mancava per procedere verso una strada che sentivi presente in te, ma che non riuscivi a focalizzare. È questo che mi spinge a scrivere.

Che ricordi conserva della sua lunga esperienza di autrice televisiva? Che differenze ci sono tra le tempistiche dell’approfondimento televisivo e quelle della carta stampata?

Ricordi molto belli. La Tv ti dà possibilità di raccontare la realtà non solo attraverso le parole ma anche attraverso le immagini. È un lavoro di grande responsabilità, perché il connubio tra parole, immagini e musica è potente. Le tempistiche dipendono dalla cadenza della messa in onda o delluscita cartacea. Se fai un quotidiano (che sia Tv o Stampa) sono simili. La differenza sta nel fatto che in Tv, oltre a scrivere un pezzo, devi anche raffigurarlo. E non è semplice.

Le sue coraggiose battaglie al fianco delle famiglie delle vittime di gravi reati, in particolar modo delle vittime della strada, l’hanno portata a conoscere e a favorire la divulgazione di realtà tragiche. A che punto siamo oggi?  Quali sono gli obiettivi raggiunti e quali i muri ancora da abbattere?

Le battaglie fatte negli anni hanno reso le persone comuni, i magistrati e i politici più consapevoli. Le storie dei familiari raccontate in Tv hanno permesso a una larga parte dellopinione pubblica di rendersi conto che quello che chiamiamo erroneamente incidente è invece un vero e proprio reato, che può distruggere tante vite. Questo Governo è molto sensibile alla tematica. Lo è il premier Matteo Renzi, ma anche il Vice Ministro dei Trasporti Riccardo Nencini. Entro fine anno dovremmo avere finalmente il nuovo reato. Lintroduzione di un reato a sé, al di là delle critiche, è indispensabile, perché la differenza tra Codice Penale e quello che chiamo codice reale, ovvero lapplicazione della pena, è notevole. Di fatto, attualmente, a una condanna sempre troppo mite non corrisponde alcuna pena. Partendo da una minima più elevata, almeno, scongiuriamo la condizionale. Ed è necessario introdurre un reato specifico anche per una questione morale: dobbiamo smettere di metterci in auto con leggerezza. Unauto non è una poltrona, è unarma bianca! Chi provoca uno scontro mortale o che rende invalide le persone non è un poveretto da compatire. È, nella maggioranza dei casi, un delinquente che non rispetta le regole stradali.
La nuova legge è già passata in Senato e, anche se non è perfetta, rappresenta un passo che certamente porterà risultati nel lungo periodo. Proprio nei giorni scorsi il Disegno di Legge è stato preso in esame alla Camera e la sua approvazione e il suo nuovo passaggio in Senato sono notizie di poche ore fa.
Il 26 ottobre i familiari delle Vittime si sono date appuntamento davanti al Parlamento in un sit-in pacifico, fortemente voluto da Marina Fontana, che nel 2013 ha perso il marito in uno scontro stradale. I familiari delle Vittime hanno voluto far sentire la loro presenza, in appoggio alla discussione in aula, per sottolineare limportanza di una reale presa di coscienza di questa piaga della nostra società, che va affrontata con serietà e consapevolezza da parte di tutti, con provvedimenti efficaci e non di circostanza.
Come abbiamo dichiarato con Elisabetta Cipollone, mamma di Andrea De Nardo, ucciso nel 2011 mentre attraversava la strada sulle strisce pedonali con il fratello gemello: quando abbiamo cominciato a lottare, a batterci per l'introduzione del reato di omicidio stradale, già altri lo avevano fatto prima di noi, ma il cambiamento culturale non era che un lumino lontano. Oggi è un faro. Perché alla fine è di questo che abbiamo bisogno. Le leggi, una volta approvate si possono migliorare.  



A cosa sta lavorando attualmente? Quali sono i suoi programmi per il futuro?


In questo momento sono molto attiva in azienda. Con due giovani imprenditori di Alessandria, Luca Zafarana e Manuel Giannini, nel maggio del 2014 abbiamo costituito la Niente Paura. Unimpresa Made in Italy, che produce accessori moda come il bracciale fashion solidale Tatù, dedicato alla lotta contro la violenza sulle donne. La nostra è unazienda innovativa, perché altamente etica e responsabile. Nellatto di nascita, davanti al notaio, abbiamo inserito la doppia finalità: da una parte il profitto, dallaltra la redistribuzione di parte di esso al sociale. A oggi, pur non avendo ancora avuto un utile di impresa, abbiamo destinato oltre 20.000 Euro a progetti di aiuto a chi è in difficoltà. Credo che, se ognuno di noi, politico, privato, impresa, avesse più attenzione verso ciò che c’è oltre il proprio giardino, questo paese sarebbe migliore! Dal 4 ottobre al 20 dicembre, per esempio, i bracciali Tatù acquistati nel nostro shop sul sito www.nientepaura.net vanno a contribuire alla realizzazione di un pozzo di acqua potabile in Tigray (Etiopia) dove, a causa della mancanza di acqua potabile, i bambini muoiono sotto i cinque anni e le donne sono costrette a ore e ore di cammino, col rischio di violenza, per dissetare i villaggi. Ecco, lavorare e fare del bene lo trovo bellissimo. Poi sto scrivendo un nuovo libro che uscirà il prossimo anno.


www.barbarabenedettelli.it


lunedì 26 ottobre 2015

Andrea Feltri e l’A. S. P. C. C.: la Criminologia è una Scienza Multidisciplinare


La sua lunga permanenza all’interno di Reparti Speciali di Investigazione, sia in Italia, sia all’estero e la sua grande esperienza come docente e divulgatore, hanno reso il Dottor Andrea Feltri un Criminologo e un Criminalista di grande professionalità, il cui punto di vista sulla materia è condiviso e apprezzato da molti. La Criminologia, secondo Feltri, è una Scienza Multidisciplinare in grado di coniugare lo studio delle Scienze Umane, all’approfondimento delle Scienze Giuridiche, per cercare delle spiegazioni razionali ai comportamenti criminosi, affinché l’impatto sulla società civile sia sempre più sotto controllo. Criminologi-tuttologi, dunque? Decisamente no, ma, senza dubbio, grandi studiosi della mente umana e delle Scienze Forensi, in continuo aggiornamento che, dopo aver consolidato solide basi, devono specializzarsi e agire il più possibile sul campo. Di sicuro nel nostro Paese la figura del Criminologo puro resta, ancora oggi, in un limbo che paga lo scotto della mancanza di una formazione adeguata e specifica e di un ruolo tangibile nei contesti investigativi, ma le prospettive per il futuro sono buone: c’è da essere ottimisti e lo dimostrano realtà d’eccellenza come l’Accademia delle Scienze Psico-Criminologiche e Criminalistiche, un’Associazione nata dalla collaborazione di molti esperti del settore, della quale Andrea Feltri è fondatore e Presidente.


Oltre trentacinque anni di esperienza professionale in nuclei info-investigativi e in reparti di intelligence, in Italia e all'estero, in collaborazione con altre forze di polizia, la rendono un investigatore, un criminologo e criminalista di grande professionalità ed esperienza. Chi è e che ruolo svolge, o potrebbe svolgere, il criminologo al giorno d’oggi? Che differenze ci sono tra l’Italia e il resto del mondo?

Il Criminologo è uno scienziato che analizza, cerca di comprendere e fornire risposte circa il fenomeno criminoso nella sua complessità, considerando qualsiasi prospettiva attenga il crimine. Ciò presuppone una cultura multidisciplinare che abbracci sia le scienze umane, quali ad esempio la psicologia, la sociologia, la psichiatria, la medicina legale, la biologia e l’antropologia, sia le scienze giuridiche e criminalistiche. In virtù di questo, il Criminologo può svolgere incarichi di diversa natura. Partendo dall’attività investigativa, può, inoltre, occuparsi di ricerca scientifica, volta ad analizzare cause e conseguenze della criminalità, dirigere operazioni di sicurezza, fornire consulenza e formazione ad enti pubblici o privati. Per quanto attiene la mia carriera, la permanenza all'interno di Reparti Speciali mi ha permesso di svolgere la mia professione a tutto tondo, sia da un punto di vista scientifico e di studio, sia, e soprattutto, sul campo, dove, a mio avviso, avviene la formazione più incisiva e permanente.
L’Italia, pur essendo un Paese all’avanguardia, dotato di un ottimo apparato investigativo, non lascia largo spazio alla figura del Criminologo, anche in virtù del sistema giuridico presente, che privilegia il momento inquisitorio a quello investigativo. Non a caso la professione ha iniziato ad avere maggiore rilievo a partire dal 2000, anno in cui la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha approvato, in sede legislativa, una riforma del Codice di Procedura Penale, prevedendo la possibilità anche per gli avvocati difensori di compiere delle indagini a tutela dei loro assistiti. A questo si aggiunge la mancanza di un percorso di formazione che abiliti alla professione.

Di cosa si occupa l’Accademia delle Scienze Psico-Criminologiche e Criminalistiche che ha fondato e dirige con successo? Quali sono gli obiettivi, le attività e gli ostacoli che l’Associazione si pone e incontra quotidianamente?

L’Accademia delle Scienze Psico-Criminologiche e Criminalistiche nasce da una duplice volontà. Innanzitutto per mettere a disposizione dei professionisti e degli appassionati della materia, saperi e conoscenze acquisite a livello nazionale ed internazionale. Inoltre, come luogo di ritrovo, studio e formazione continua per i colleghi. L’Associazione si propone di specializzare professionisti provenienti da differenti ambiti scientifici, attraverso lo svolgimento articolato di attività culturali e di formazione aventi ad oggetto la diffusione e lo studio approfondito delle Scienze Psico-Criminologiche e Criminalistiche, la cui valenza interdisciplinare consente una conoscenza e uno studio trasversale, che abbraccia contenuti e interessi culturali di più discipline. Nello specifico, dunque, l’A.S.P.C.C. prevede un percorso formativo che si concretizza nell’approfondimento dello studio e della conoscenza delle problematiche e delle tematiche più attuali attinenti alla psicologia criminale.

La sua attività come divulgatore e docente la porta a confrontarsi sia con professionisti del settore, sia con il più variegato pubblico di appassionati e curiosi della materia. Quanto è importante la formazione continua per chi voglia intraprendere la carriera di criminologo e criminalista?

Non è possibile pensare di intraprendere la carriera di Criminologo prescindendo dalla formazione continua e costante. Essendo la Criminologia una scienza multidisciplinare, composta ed affiancata da scienze che hanno come oggetto l’uomo e la psiche, non procedere nella direzione della continua ricerca e del continuo studio significherebbe essere incompleti dal punto di vista professionale. Confrontarsi con una realtà mutevole e non statica vuol dire seguirne le dinamiche procedendo di pari passo.

Televisioni, giornali, Social Network: quando si parla di cronaca nera il confine tra informazione e intrattenimento sembra assottigliarsi. Cosa pensa della sovraesposizione di alcuni casi e dell’indifferenza verso altri? Che ruolo hanno, o dovrebbero avere, i mezzi di informazione nella risoluzione dei crimini?

Ritengo che la spettacolarizzazione del crimine possa essere considerata puramente un prodotto mediatico ed è in quest'ottica che si può comprendere la disparità di trattamento tra crimini differenti. Molto dipende dalla risonanza mediatica che il caso può suscitare, ma anche dalla tipologia della vittima. Basti pensare all'infanticidio, all'uxoricidio, all'aggressione da parte di cittadini stranieri, casi riportati in misura nettamente maggiore rispetto ad altri, ma non per questo fedele ricostruzione dei dati statistici. Per quanto mi riguarda, la risoluzione di un caso avviene lontano dalle luci della ribalta, nel silenzio e nella quiete dei luoghi preposti allo svolgimento delle indagini. Non condivido i processi mediatici e la pubblica inquisizione, pertanto evito di esprimere giudizi di carattere professionale su fatti di cui non dispongo della documentazione investigativa e processuale.

Dalla violenza di genere, al profiling, passando attraverso i delitti commessi da minori o da serial killer: su cosa verteranno le sue prossime pubblicazioni? Ci racconti quali sono i suoi programmi per il futuro.


Il mio lavoro di ricerca e studio mi porta ad analizzare le cause del comportamento criminale, cercando di fornire soluzioni e strumenti utili a contenere ed arginare il fenomeno. Alcune pubblicazioni sono in fase di stesura, nel mentre continuo il mio lavoro di formazione mediante corsi e seminari. Alcuni, in collaborazione con il Centro Studi e Formazione Psico-Criminologica, dovrebbero partire nel corso di questa stagione, mentre altri progetti e collaborazioni sono in fase di programmazione. Certamente procederò con passione, professionalità ed impegno, caratteristiche fondamentali del mio percorso lavorativo.

www.aspcc.it

sabato 24 ottobre 2015

Eleonora Mandese: scrivo perché mi rende felice!


Eleonora Mandese, classe 1995, è una giovanissima scrittrice di talento che, nonostante sia solo all’inizio di quello che le auguriamo essere un lungo percorso di vita, sa già il fatto suo. È romantica e ottimista, ma anche determinata e coi piedi per terra. Leggendo il suo romanzo, “Bastardi!”, edito da Lettere Animate, ci siamo accorti che l’ironia non le manca e che ha una capacità di tratteggiare personaggi e situazioni davvero non comune, evitando banalità e pregiudizi. “Bastardi!” è la storia di quattro ragazze molto diverse tra loro che hanno solo una cosa in comune: un bastardo, che ha tolto loro l’entusiasmo di amare. Tra tradimenti, inganni e sotterfugi, le risate sono assicurate, ma non mancano gli spunti di riflessione. Lo stile dell’autrice è fresco e frizzante, anche se, a tratti, ancora acerbo, e la trama è credibile e ben intrecciata, un colpo di scena dopo l’altro. Queste sono le qualità che fanno di Eleonora Mandese una giovane autrice da tenere d’occhio e di “Bastardi!” un libro da leggere a cuor leggero, senza dimenticare che tutto è tratto da una storia vera: probabilmente la tua!



Tratto da una storia vera, probabilmente la tua! Ecco lo slogan che ci ha fatto innamorare di “Bastardi!”, edito da Lettere Animate, un romanzo ironico, brillante e divertente proprio come le vicende che narra. Raccontaci la genesi di questo libro: cosa ti ha ispirato durante la stesura?

Ho scritto “Bastardi!” nel mese di agosto e l'estate è stata la mia prima fonte di ispirazione. Il romanzo è ambientato a Castellaneta Marina, località di mare nella quale ho sempre trascorso le vacanze estive e a cui tengo molto e devo tanto a livello di affetti ed esperienze personali. Una sera, sotto le insistenze di un mio amico, mi recai in discoteca dove ebbi modo di conoscere tre ragazze, ognuna con una storia diversa da raccontare, ognuna con un dolore amoroso da dimenticare. In un luogo in cui ci si aspetterebbe di divertirsi la loro infelicità galleggiava nell'aria, suggerendomi l'idea di avventurarmi in una nuova storia, un racconto che aiutasse loro ad andare avanti e a non avere paura dell'amore, infondendo a tutte il coraggio necessario per innamorarsi ancora.

Da dove nasce la tua esigenza di scrivere? Che autrice sei: segui l’ispirazione in ogni momento della giornata o hai un metodo preciso al quale non rinunci mai?

Mi affido molto all'istinto. Credo che l'ispirazione possa nascondersi ovunque e che l'abilità dello scrittore risieda proprio nel notare determinati particolari e trasformarli, arricchendoli con la propria esperienza personale. Quando ho in mente un progetto sono tutt'uno con la pagina bianca di Word, mi distacco dal mondo e vivo la storia che intendo descrivere facendo di tutto per stenderla come io, da lettrice, vorrei leggerla. Sono molto esigente e spesso mi ritrovo a fare le ore piccole scrivendo anche dieci volte la stessa pagina.

Chi sono Elisa, Antonella, Silvia e Marirosa, le protagoniste del tuo romanzo? Come le definiresti e, in generale, come delinei i personaggi delle tue storie?

Il romanzo è tratto da una storia vera, ragion per cui nelle protagoniste si rispecchiano personalità reali con le quali ho avuto modo di confrontarmi. Elisa è il mio alter ego, una ragazza riflessiva abituata a dare buoni consigli pur non riuscendo a fare altrettanto con sé stessa. Antonella, al contrario, è impulsiva, abituata ad ottenere ciò che vuole nella vita pur sentendosi intimamente fragile. Silvia è la classica ragazza casa e chiesa, un involucro di incertezze e paure, alla ricerca continua di un carattere che le dia un tono nella vita. Marirosa, infine, è il personaggio più complesso e interessante che mi sia mai capitato di delineare: sempre con la battuta pronta, in grado di mettere in soggezione chiunque con la sola presenza fisica, è, alla fine, la ragazza che più di tutte ha bisogno di supporto, poiché costantemente in lotta con i suoi demoni interiori.
Calarmi nella loro mente e dare ad ognuna di loro una voce è stata un'esperienza intensa, capace di farmi osservare il mondo con occhi diversi. Mi sono divertita!

È ancora possibile oggi, secondo te, fare della scrittura una professione a tempo pieno? Che ostacoli hai incontrato e incontri ancora oggi lungo il tuo percorso?

Confucio diceva: “Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in tutta la tua vita”.
Purtroppo ci ritroviamo a vivere in una società che ci ostacola continuamente, suggerendoci di abbandonare i nostri sogni per seguire vie più concrete, invece di fare di tutto per realizzarli.
Frequento Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Milano e, se mi avessero dato un Euro per tutte le volte in cui hanno storto la bocca alla mia scelta di studiare materie umanistiche, piuttosto che scientifiche, probabilmente mi manterrei fino alla pensione solo con questo.
Scrivere non è una professione, ma è una possibilità che ho scelto di considerare nella vita per essere felice. Mi basta pensarla così e continuare a camminare nella speranza di percorrere strade sempre più lontane.

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi programmi per il futuro.

Ho appena completato la stesura del mio ultimo romanzo “Tutta colpa del pallone”, che ho pubblicato autonomamente. Questa volta mi sono addentrata nel genere chick-lit, esplorando con ironia un campo dapprima sconosciuto per me, il calcio. È stata, inoltre, appena aperta presso il giornale “IlKim” la mia prima rubrica intitolata “Peccati D'Inchiostro”, nella quale esamino, con uno stile ironico, la società di oggi, nella speranza di indurre, tra una risata e l'altra, qualche riflessione.
I miei programmi per il futuro? Laurearmi, continuare a scrivere e sperare di arrivare sempre più lontano.

“I sogni son desideri”. Se lo diceva quella gran culo di Cenerentola, come si dice in “Pretty Woman”, per quale motivo non dovrei crederci anche io?

mercoledì 21 ottobre 2015

Nadir Malizia: un uomo normale in una Società disabile


Quella di Nadir Malizia è una storia semplice. Di quelle che, con la sola potenza della loro purezza, sono in grado di spostare per sempre il baricentro della nostra normalità, portandoci a ridimensionare quelli che la gente, di solito, considera limiti e non opportunità. Ma, attenzione: semplice, non vuol dire facile. Nadir è un ragazzo brillante, intelligente, generoso, che, invece di camminare con le proprie gambe, vive una vita su quattro ruote e che ha scelto di non permettere alla sua disabilità fisica di creare delle barriere anche nella sua mente. Ha deciso di vivere, amare e sognare senza riserve e, col suo primo libro, “Vita su quattro ruote”, C’era una volta Edizioni, ha avuto il coraggio di raccontare a tutti noi cosa si prova a sentirsi normali in una società disabile, con l’obiettivo di sgretolare i pregiudizi e le ipocrisie che un tema delicato come la disabilità porta con sé. Nadir è diretto, ironico, trasparente e ci accompagna in un percorso ricco di scoperte, senza inibizioni e perbenismi, con la sola voglia di confronto e condivisione, che dovrebbe animarci tutti, ogni giorno. “Vita su quattro ruote” è un libro delicato e poetico, ma mai banale o melenso. È un’autobiografia sui generis, dove a colpire non è solo ciò che è scritto, ma anche la prospettiva e l’augurio che ci sia ancora tanto di bello da scrivere e da raccontare.


“Io mi sento un uomo normale, purtroppo vivo in una società disabile che non vuole vedere al di là dei propri occhi.” In questa frase è racchiuso il significato più profondo del tuo libro “Vita su quattro ruote”, Edizioni C’era una volta. Raccontaci la genesi di quest’opera: cosa ti ha ispirato durante la stesura?

Il tema della disabilità non viene trattato dai media come si dovrebbe, viene, invece, troppo spesso trascurato, come se non interessasse a nessuno ed è qui che sbagliamo! Soltanto quando ci sono importanti manifestazioni di solidarietà se ne parla in televisione o suoi giornali, ma poi, quando si spengono i riflettori, tutto torna come prima e nulla viene approfondito. Ecco cosa mi ha portato a scrivere questo libro. Mi sono sentito in dovere di fare qualcosa. La società e, di conseguenza, le persone che ne fanno parte, devono rendersi conto che esistono tanti tipi di realtà: tra queste c’è anche quella della disabilità con tutti i suoi problemi e le difficoltà che bisogna affrontare ogni giorno. Ma c’è anche il rovescio della medaglia, ci sono anche degli aspetti positivi, come vivere la vita in modo più intenso, apprezzando veramente ciò che si ha. Perciò ho preso la decisione di scrivere un libro e raccontare la mia testimonianza, anche e soprattutto positiva, per poter essere di aiuto agli altri che si trovavano nella mia stessa situazione, mettendomi in prima linea.

Disabilità non è sinonimo di diversità, sono le emozioni a renderci tutti uguali e, nello stesso tempo, tutti diversi. A chi e quale messaggio vuoi lanciare con il tuo libro? Quant’è importante l’informazione per favorire l’integrazione di chi vive situazioni di difficoltà come la tua?

Il libro “Vita su quattro ruote” non ha un target specifico di lettori, ma, al contrario, si rivolge a tutti, indistintamente. I messaggi che voglio trasmettere con questo libro sono molti. Ogni lettore, però, può dedurre liberamente il proprio: riflettere e farsi delle domande, arrivando a una sua conclusione. Ad esempio, nel libro scrivo: “La società si è mai chiesta come si vive una vita su quattro ruote? Evidentemente no! A questa società la diversità fa paura, tutto ciò che non si conosce è meglio allontanarlo”. Ecco, già da questa mia riflessione il lettore potrebbe porsi delle domande per approfondire questa tematica.
Direi che l’integrazione della persona con una diversa abilità nella società attuale è davvero molto importante. Il diversamente abile vuole essere parte integrante del sistema. Vuole poter lavorare, innamorarsi, essere un libero cittadino e vuole essere trattato come tale e non come un diverso da emarginare. Avere una diversità significa possedere una grande ricchezza che ci può distinguere dalla massa. Non siamo alieni che arrivano da un pianeta sconosciuto, siamo essere umani, con sentimenti identici a tutti gli altri, solo questo è ciò che conta. Se la società ci allontana, perché, magari, non conosce e non capisce cosa significa avere una disabilità, siamo noi diversamente abili che dobbiamo tendere una mano verso l’altro e far comprendere che ognuno di noi è diverso e, grazie a questo, si può imparare molto gli uni dagli altri, come a vedere anche la propria vita con occhi diversi. C’è un passo del mio libro dove sottolineo ampiamente questo disagio nei nostri confronti: quello che, in generale, nelle persone scatta è una sorta di pietismo, che danneggia tutti. Tutti siamo uguali, con le nostre diversità e per questo dobbiamo confrontarci per comprenderci. Molti, però, hanno forti pregiudizi nei confronti delle persone disabili. Credono che non si possa avere una vita normale o, ad esempio, innamorarsi di qualcuno. Tutti questi falsi miti, nel mio libro, vengono completamente sfatati.



Come hai scoperto di avere il talento e l’esigenza di scrivere? Che autore sei?

Sono un autore emergente, che ha molta strada davanti a sé, ma sto avendo già parecchie soddisfazioni con il mio primo libro. Gli apprezzamenti sono stati tanti e questo grazie alla Casa Editrice C’era una volta, che mi sta accanto in ogni nuovo progetto, che nasce e si sviluppa insieme. Spero di essere anche un autore sensibile, che cerca di toccare le corde più profonde dell’anima del lettore, entrando in sintonia con chi legge, fino a diventare una cosa sola.
La passione per la scrittura l’ho sempre avuta. All’inizio, in particolare, nell’età adolescenziale, era un modo per sfuggire dalla realtà di tutti giorni. Un mondo privato che apparteneva solo a me e nel quale nessuno poteva entrare. Usavo un diario, come fanno tanti, dove scrivevo le mie emozioni, sensazioni, perplessità e paure. Per me scrivere è rilassante, liberatorio. Il più delle volte mi capita di guardare qualcosa e esserne catturato: ecco che all’improvviso inizio a scrivere, le parole escono da sole senza alcuna fatica e prendono vita.
A un certo punto, poi, crescendo, ho capito che non volevo più scrivere solo per me stesso, ma volevo anche rendere partecipi gli altri della mia vita. Così ho deciso di scrivere un libro autobiografico, sperando che una Casa Editrice potesse prenderlo in considerazione e pubblicarlo. Dopo tante ricerche, nel dicembre 2014, ho firmato il mio primo contratto editoriale. Il mio sogno si stava concretizzando, grazie al mio editore, Cinzia Tocci, e al suo staff che ha creduto in me senza riserve.

Quanto è difficile sensibilizzare l’opinione pubblica verso i temi che tratti? Chi ti sta più accanto concretamente e quali sono gli ostacoli che affronti quotidianamente?

Non è facile sensibilizzare l’opinione pubblica, in particolare su certi temi così delicati, come la disabilità o le barriere architettoniche.  Bisogna mettersi in gioco in prima persona. Per questo voglio crescere e diventare un punto di riferimento per chi non ha voce e fa fatica a farsi ascoltare da chi di dovere. Ovunque andrò a presentare il libro mi batterò, non solo per me, ma per tutti coloro che hanno bisogno. Se non raccontiamo il nostro vissuto, come possiamo pretendere che la società dove viviamo migliori?
Anche io ho chi mi dà una mano nella vita di tutti i giorni. Io li chiamo i miei angeli custodi. Si tratta dei miei migliori amici, Luciano e Massimo, che abitano con me e con i quali ho un bellissimo rapporto. Loro mi sono stati vicino fin dal primo giorno, da quando decisi di trasferirmi nelle Marche, a Marotta di Mondolfo, in provincia di Pesaro Urbino. E anche oggi so che posso contare su di loro per ogni cosa, visto che i miei genitori vivono entrambi lontano.
Le difficoltà che devo superare quotidianamente sono molte: dalle barriere architettoniche, alla ricerca di un lavoro. Nonostante appartenga alle categorie cosiddette protette a volte è come se non esistessi, pur essendo laureato e conosca due lingue straniere, vivo le stesse difficoltà dei miei coetanei che camminano sulle loro gambe.

A cosa stai lavorando attualmente? Raccontaci quali sono i tuoi progetti per il futuro.


Attualmente sto lavorando a molti progetti, presenti e futuri, che riguardano il mio primo libro. Mi piacerebbe continuare a scrivere, infatti ho iniziato a lavorare a un nuovo libro, ma è una sorpresa anche per il mio editore e il suo staff, quindi non anticipo nulla: spero solo che venga apprezzato! Posso dire soltanto che riguarderà la musica. Mi piacerebbe, in futuro, occuparmi anche di diritti umani e poter far parte di un’organizzazione umanitaria non governativa, che si occupi di minori e persone che si trovano in situazioni di disagio economico, così da valorizzare anche i miei studi in giurisprudenza, senza mai dimenticare di aiutare il prossimo.



lunedì 19 ottobre 2015

Intervista a un bambino della Prima Guerra Mondiale


“Giulia: ciao nonno, posso farti un’intervista?

Nonno Pietro: un’intervista? Certo, ma su cosa mi vuoi intervistare?

Giulia: vorrei chiederti qualcosa sulla Prima Guerra Mondiale.

Nonno Pietro: ma io ero molto piccolo a quel tempo, invece la Seconda l’ho combattuta tutta in Africa!

Giulia: sì, lo so, nonno. Però io vorrei chiederti com’era “essere bambini” durante la Prima Guerra Mondiale. Penso che sono pochi i bambini di allora che possono raccontare le loro impressioni e così farò davvero un’intervista esclusiva!

Nonno Pietro: va bene, allora fammi pure le domande e cercherò di ricordare…

Giulia: quanti anni avevi quando ti sei reso conto che l’Italia era in guerra?

Nonno Pietro: io sono nato il 29 giugno del 1911, ma sui miei documenti risulta il 1 luglio, perché a quei tempi, nascendo in casa, spesso si ritardava la comunicazione al Comune. Anche se avevo quattro anni quando l’Italia è entrata in guerra, il 24 maggio 1915, non me ne sono accorto subito, perché a Pachino, il paesino in Sicilia dove sono nato, le cose si sapevano sempre dopo. A quel tempo non c’era la radio, né la televisione e poi eravamo una famiglia semplice, non si parlava molto di politica.
Mio padre era un contadino, in casa c’erano già altri tre bambini, le responsabilità erano tante e la situazione economica dell’Italia non era sicura.
All’epoca io ero il terzo di quattro fratelli: zia Giuseppina del 1907, zio Giuseppe del 1909 e poi zio Corrado del 1914. Nel 1916 sarebbe nato anche Concetto, un altro fratello.
In casa con noi viveva anche il nonno, Pietro, che era rimasto vedovo e veniva accudito dalla mia mamma.

Giulia: insomma eravate proprio tanti. La casa era abbastanza grande?

Nonno Pietro: Era una casa modesta, di paese, con una grande cucina dove c’era il forno a legna per fare il pane, che tutti noi bambini aiutavamo a impastare e cuocere, una camera da letto per i genitori e i bambini più piccoli, una camera per gli altri figli e un salottino per accogliere gli ospiti. C’era anche un locale per raccogliere le provviste alimentari per l’inverno ed uno spazio dove viveva l’asino che aiutava mio padre in campagna.
In un altro locale c’erano le botti dove si conservava il vino prodotto nei vigneti, sia per la famiglia, che per la vendita.
Galline e cane vivevano nel cortile comune, dove di giorno giocavamo noi bambini e la sera ci si riuniva tutti per parlare un po’ di come era andata la giornata.

Giulia: che bello, nonno, sembra una vita serena!

Nonno Pietro: lo era, ma era anche tanto faticosa! I genitori iniziavano a lavorare la mattina presto, andando nei campi dove ancora non c’erano tante macchine e si doveva fare tutto con la forza delle proprie braccia. E anche a casa i lavori domestici erano molto più faticosi: si lavava tutto a mano, le cucine erano a legna e occorreva governare il fuoco, le strade non erano asfaltate e la polvere era sempre dappertutto… senza aspirapolveri, come ora!

Giulia: però l’aria era pulita e non c’era il buco nell’ozono!

Nonno Pietro: questo sicuramente! Tutto ciò che si usava era naturale e permetteva di mantenere un giusto equilibrio tra l’uomo e la natura.

Giulia: e i bambini come passavano le loro giornate? Quando si andava a scuola?

Nonno Pietro: Si iniziava la scuola a sei anni, subito con la prima elementare. L’asilo non era molto frequentato, perché i bambini rimanevano in casa con la mamma e l’aiutavano nei lavori domestici, nell’accudire gli animali o nelle attività in campagna.

Giulia: e tu quando ti sei accorto della guerra?

Nonno Pietro: Avevo cinque anni compiuti e l’ho capito una sera quando la mamma ha dato a papà una lettera che era arrivata dal Distretto di Siracusa e che diceva che doveva andare a passare la visita per vedere se idoneo per il fronte. Non lo avevano chiamato all’inizio della guerra perché lui era già in età avanzata ed aveva tre figli, ma le cose al fronte andavano male e cominciavano a richiamare anche le persone non più giovanissime.
Mia madre era tanto preoccupata, perché capiva che si sarebbe trovata con tre bambini piccoli, un quarto in arrivo, ed una persona anziana tutte sulle sue spalle. Lei era rimasta orfana da bambina e non aveva altri parenti ai quali chiedere aiuto, una situazione difficile per una donna sola in un piccolo paese della Sicilia, dove il reddito familiare era legato al lavoro della terra.
I miei genitori parlarono quasi tutta la notte per capire come poter fare, si fecero coraggio e presero alcune decisioni.
Il mio papà trovò vari braccianti di fiducia che avrebbero lavorato la terra sotto la guida della mamma e il giorno dopo parlò molto con mia sorella grande, dicendole che avrebbe dovuto prendersi cura di noi fratelli più piccoli, perché la mamma sarebbe stata impegnata con il governo della terra.
A noi disse che ci avrebbe affidato la sua casa e i suoi animali. Io mi sentii molto importante, anche se non capivo bene cosa avrei dovuto fare, ma andai subito a dare da mangiare al nostro asino, sperando che non mi tirasse qualche calcio. In effetti penso di aver avuto un po’ paura dei suoi zoccoli così grandi in confronto alle mie mani ancora da bambino piccolo.

Giulia: e poi cosa successe?

Nonno Pietro: mio padre andò a Siracusa e fu considerato idoneo. Gli proposero di diventare Ufficiale perché era istruito, ma accettando sarebbe dovuto partire subito per il fronte, mentre, da soldato semplice, poteva rimanere al distretto di Siracusa come impiegato per il disbrigo delle pratiche amministrative. Non so quali siano stati i pensieri di mio padre, ma so che decise di rimanere vicino alla sua famiglia a Siracusa, rinunciando al titolo di Ufficiale. La sorte gli fu amica, perché il Reggimento del quale avrebbe dovuto prendere il comando ebbe una triste sorte.
L'8 giugno 1916 fu organizzato il suo rientro in Italia dall'Albania, via mare. Per il trasporto delle truppe partì un convoglio formato dal piroscafo Principe Umberto e da altre navi di scorta. Sul Principe Umberto avevano preso posto, fra truppe ed equipaggio, quasi tremila uomini.
Le navi salparono in serata, per essere coperte dal buio, ma, poco dopo, la rotta del convoglio s'intrecciò con quella di un sommergibile tedesco, l'U. 5, che lanciò due siluri. Il Principe Umberto, colpito a poppa, s'inabissò nel giro di qualche minuto, trascinando con sé quasi duemila uomini. Solo pochi poterono essere tratti in salvo.
Ricordo ancora il dolore di mio padre per questo evento e le preghiere di mia madre che ringraziava il Signore per lo scampato pericolo.

Giulia: nonno, sembri ancora commosso mentre mi racconti queste cose, ma allora come bambino cosa provavi?

Nonno Pietro: la nostra vita era così faticosa, che la stanchezza e la giovane età non mi facevano sentire tanta paura e poi la mia mamma era sempre molto serena quando ci raccontava le cose e ci coinvolgeva nella vita di tutti i giorni.

Giulia: come erano le tue giornate in quel periodo?

Nonno Pietro: prima di iniziare la scuola ero praticamente sempre insieme a mia sorella Giuseppina, Miniccia come la chiamavamo noi, e l’accompagnavo in tutte le sue faccende.  Andavamo a fare il bucato al mare con la cesta dei panni sul carretto e mio fratello Giuseppe che governava l’asino. La cesta era talmente grande per noi, che dovevamo tenerla in due e, ogni volta, salire e scendere era un’impresa.  Mi ricordo che andavamo anche al mulino a far macinare la farina per fare il pane e mia madre mandava solo noi per cercare di commuovere il Dazio, che, allora, faceva pagare la tassa sul grano macinato: eravamo talmente magri che sperava ci facessero uno sconto sul dovuto.
La mattina, mentre mia sorella era a scuola, stavo con la mamma che andava in campagna per controllare gli uomini al lavoro e allora mi sentivo più grande e facevo il padroncino seguendola tra i filari delle viti per controllare se il terreno era stato zappato o se erano arrivati i parassiti.
Quando, poi, ho iniziato ad andare a scuola avevo solo il pomeriggio libero e, dopo aver fatto i compiti, aiutavo nei lavori in casa e nel controllo dei conti che mia madre e mia sorella facevano: mamma non sapeva leggere ma era bravissima con i numeri.

Giulia: e tuo papà non tornava mai a trovarvi?

Nonno Pietro: lui era a Siracusa, che oggi in macchina si raggiunge in trenta minuti di viaggio da Pachino, ma allora erano più di tre ore con la carrozza e il viaggio costava, quindi non veniva spesso. Quando ci riusciva, però, era una festa, perché ci sembrava sempre un miracolo e la mamma piangeva per un po’. Mio padre era molto severo con noi figli e nelle poche ore che passava con noi ci controllava sempre nei compiti e ci ricordava i nostri doveri. Solo verso mia sorella grande, che allora aveva comunque meno di dieci anni, si rivolgeva quasi con gratitudine, perché sapeva la fatica che le dava la gestione della casa.
Un ricordo particolare è la nascita di mio fratello Concetto nel 1916. Ricordo che mio padre riuscì a venire solo dopo alcuni mesi dalla nascita e tenne stretto a sé il bambino per tanto tempo, mentre mio fratello Corrado, ancora piccolo, piangeva perché era geloso.
Il ricordo più brutto, però, è legato a quando nel paese si veniva a sapere che c’erano state delle vittime tra i paesani.
Non sempre arrivavano le salme dei caduti, ma si andava tutti in Chiesa per pregare insieme ai familiari che spesso erano giovani mogli e bambini, come me, che perdevano il padre.

Giulia: e come hai saputo che la guerra era finita?

Nonno Pietro: non me lo ricordo con precisione, ma ricordo che, a un certo punto, le visite di papà diventarono più frequenti, finché rimase con noi sempre e la mamma non dovette più occuparsi dei lavori di campagna. A scuola ci dissero della fine della guerra spiegandoci che era stata una grande vittoria e che il Paese avrebbe avuto tanti benefici, ma, mentre il maestro ce lo diceva, in classe eravamo solo quattro bambini, tutti gli altri erano a lavorare nei campi per aiutare il bilancio familiare, quindi non facemmo tanti commenti e domande…

Giulia: ma non ci fu una festa per la guerra finita e il ritorno della pace?

Nonno Pietro: non mi sembra, forse eravamo tutti così tanto stanchi e sofferenti, che la voglia di festeggiare non era molta. Purtroppo ricordo che anche gli anni a seguire non furono facili e le notizie politiche cominciarono a diventare sempre più frequenti e a separare le persone rispetto alle scelte da prendere, fino agli anni del Fascismo e del nuovo conflitto mondiale ma… questa è un’altra guerra, quindi una nuova intervista, se vorrai farmela!”

Quest’intervista è stata realizzata nel giugno 2010. Giulia aveva tredici anni e, in occasione dell’esame di Terza Media, ha deciso di raccontare, con l’aiuto di tutta la famiglia, la Prima Guerra Mondiale vista attraverso gli occhi di un bambino speciale, il nonno Pietro, che, all’epoca del conflitto, aveva cinque anni.
Oggi Giulia ha da poco compito diciotto anni e si sta preparando all’Esame di Maturità con un solo piccolo rimpianto: non poter più intervistare il nonno Pietro, per raccontare, attraverso i suoi ricordi, gli anni della Dittatura Fascista e di come cambiò il nostro Paese, della Seconda Guerra Mondiale, che ci mise in ginocchio, della sua lunga prigionia in Africa e poi della rinascita del Dopoguerra e del boom economico che travolse l’Italia nel decennio successivo. Ci sarebbe stato davvero tanto da scrivere, avventure che oggi leggiamo solo nei romanzi, ma che appartengono alla memoria di vita di tanti nonni, sempre più anziani e che non dovremmo mai stancarci di “intervistare”, prima che la loro storia diventi Storia, con la esse maiuscola.

Giulia Rinaldi è mia sorella, vuole diventare biologa ed è disordinata e incosciente, ma anche tanto coraggiosa e altruista.
Pietro Tringali, classe 1911, Maresciallo Maggiore in pensione dell’Esercito Italiano, Cavaliere del Lavoro e inguaribile ottimista, si è spento esattamente un anno fa, il 19 ottobre 2014, all’età di 103 anni, oltre un secolo di vita.
Pietro Tringali era mio nonno.